da sigurlotus » dom dic 14, 2008 11:56 am
riprendo questo thread per inserire una recensione, lunghina in realtà, ma mi sembra buona..
Per gli amici "Med sud"...
Nonostante l'inevitabile assonanza metrica con la raccolta di inediti di Elio e le storie tese, "Esco dal mio corpo ed ho molta paura", rafforzata anche dalla particolare copertina dell'album, la traduzione del titolo non è questa.
Dando per scontato che il vostro islandese sia un po’ arrugginito, mi permetto di tradurvi in italiano il delirante titolo di questo ultimo progetto dei Sigur Rós, che altro non significa se non "Suoniamo all'infinito con un ronzio nelle nostre orecchie".
Per chi non conosce ancora questa giovane band nord europea, credo che l'introduzione a questa recensione possa ben riassumere quello che vi accingete ad ascoltare.
Tra l'altro come si fa a recensire un disco dei Sigur Rós? Come si fa a dire se è migliore o peggiore di uno dei precedenti? E questo non perché i brani siano tutti uguali, ma perché risulta veramente difficile trovare dei parametri di riferimento, persino nella loro stessa discografia.
La cosa più simile che ci viene in mente, per darvi un idea del genere, comunque inclassificabile, esplorato dalla band, è quel capolavoro assoluto di "Spirit of Eden" (Talk Talk - 1988) nei suoi passaggi più estremi e visionari.
Vi basti pensare che anche in questo caso, come quasi in tutti gli album precedenti, le tracce sono cantate in islandese, fatta eccezione per l’ultima traccia “All alright”, cantata in inglese, nella quale però vi sfido a riconoscere qualche parola.
L’album si presenta sicuramente come il più “ottimista” di tutta la discografia, con aperture solari al limite dell’inverosimile per chi conosce i Sigur Rós, senza però rinunciare alla sua matrice ambient, intessuta abilmente di sonorità acustiche ed elettroniche, con pregevoli crescendo, forse tra i più epici che ricordiamo per questo gruppo, come nel finale di ”Ára bátur” che sarebbe potuto essere tranquillamente colonna sonora di una delle scene della trilogia-capolavoro di Peter Jackson: Il Signore degli Anelli.
D’altra parte, data la natura della loro musica, i Sigur Rós non sono nuovi ad esperienze trasversali con le arti visive, avendo già realizzato diverse soundtracks o viceversa avendo realizzato materiale video da abbinare alla loro musica come nel suggestivo tour-documentario della band “Heima” (2007).
Un plauso anche al sito web ufficiale “Eighteen seconds before sunrise”, che ha raggiunto da poco i 10 milioni di visite uniche e che, come accade veramente di rado, è completo di informazioni dettagliatissime su tutta la discografia e sulla produzione video della band.
Diamo come sempre uno sguardo più da vicino, o meglio un orecchio, alle singole tracce e all’atmosfera generale del album a cui abbiamo comunque già accennato.
La copertina realizzata da Ryan McGinley e la prima traccia “Gobbledigook” non lasciano dubbi sulla ritrovata vitalità dei beniamini di Björk.
Ed è proprio in questa variante solare che si apre “Med sud”, con baldanzosi incastri ritmici di chitarra acustica e l’onirica voce di stampo Radiohead, del cantante Jónsi Birgisson's, per la prima volta “felice di esistere”.
Attenzione, non stiamo dicendo che il gruppo ha improvvisamente stravolto il suo stile, trasformandosi in una boy band, ma alla consueta contemplazione delle misteriose lande ghiacciate dell’Islanda e alla prorompente epica della forza della natura, che ne plasma violentemente le terre, ha abbinato in alcuni frangenti momenti di spensieratezza quasi goliardica.
Anche la seconda traccia “Inní mér syngur vitleysingur” (ndr. cambia qualcosa se non scrivo i titoli delle canzoni?...) si mantiene su toni decisamente uplift, rispetto allo standard dei Sigur Rós, con tanto di batteria ostinata in classico stile indie, anche se a questa si affiancano elementi orchestrali sia nell’arrangiamento che nelle sonorità, quali lo xilofono, i violini e gli ottoni che pervadono tutto l’album.
A tranquillizzare i fan più ortodossi pensa “Góðan daginn”, traccia che, pur mantenendo una struttura abbastanza lineare, riporta le atmosfere su frequenze vagamente più mistiche.
Epopea trionfale quella del quarto brano “Vð spilum endalaust”, dominato da un basso ostinato in quarti, colonna portante del solito arrangiamento acustico-orchestrale.
La presenza dei fiati è massiccia in tutto l’album, ma non disturba minimamente anche chi non ama questo comparto timbrico, essendo ben amalgamata con il resto dei suoni, seppur predominante anche sui tappeti di violini nella maggior parte dei casi e in particolare nei climax di cui le tracce sono ricche.
L’atmosfera generale che pervade l’album risente anche dell’approccio decisamente più “live” e meno “costruito”, con cui sono stati volutamente registrati i brani, tant’è vero che il disco è stato rilasciato ad appena un mese dal suo completamento.
Ad esempio la settima traccia è stata registrata in una unica sessione, con il coinvolgimento della London Sinfonietta, del coro maschile del London Oratory School Schola, del quartetto di violini Amiina e di una sezione di cinque fiati, per un totale di novanta elementi, costituendo di fatto il brano più “impegnativo” nella carriera della band.
Altra novità è la registrazione dell’album, che vede la presenza del produttore Flood dei Nine Inch Nails, avvenuta in tre differenti studi: presso i “Sear Sound Studios” di New York, presso gli storici Abbey Road Studios di Londra e infine nel “casalingo” studio di Reykjavík, con alcuni take addirittura nell’Havana a Cuba e una ripresa live in una chiesa di Reykjavík.
Ma torniamo alle tracce…
“Festival” si presenta con un gusto analogo alla traccia precedente anche se con un incipit molto più etereo, orchestrato da un duo di voce e quello che sembrerebbe essere un organo, ma potrebbe benissimo essere un synth o una chitarra elettrica effettata in dissolvenza.
Dopo questo inizio particolare, il brano si propone come dicevamo in modo molto simile al precedente, con basso ostinato, batteria e crescendo epico nel finale, costellato di incastri vocali, “organo”, basso molto metallico e batteria letteralmente dispersa tra piatti e rullante, a cui si aggiungono negli ultimi secondi anche i fiati.
Splendido inizio di pianoforte per la sesta traccia “Með suð í eyrum” che rimane più o meno di intensità costante fino alla fine dei suoi cinque minuti, con batteria giocata sui tom, qualche inserto ritmico lo-fi verso la fine, il solito “organo” indecifrabile e pianoforte arpeggiato.
Di tutto altro stampo invece “Ára bátur” che procede molto lenta e introspettiva quasi per l’intera durata, per poi esplodere nello splendido climax orchestrale e corale, di cui abbiamo già parlato.
Chitarra acustica e voce per “Illgresi” che nella sua dolce semplicità non si aggiudica di poco il titolo di nostro “brano preferito”.
In ogni caso questa canzone ha avuto il pregio di ricordarci che preferiamo gli archi agli ottoni, presenti e finalmente indisturbati in questo pezzo e che la magia che evocano chitarra acustica e voce è unica e ci riporta inevitabilmente a tempi fuori dal tempo, in qualche modo vagamente celtici.
A nostro avviso l’album da il meglio di sé proprio dalla sesta traccia in poi, dato che vengono abbandonate tutte le contaminazioni “indie” del comparto ritmico, la presenza massiccia della sezione fiati e in parte anche quella sorta di “allegria” a cui non eravamo abituati, nonostante le atmosfere rimangano spensierate anche nella seconda metà del cd.
La costante rimane sempre e comunque l’inizio lento e d’atmosfera e il grande climax negli ultimi minuti, se non addirittura secondi, presente in quasi tutte le tracce.
E infatti “Fljótavík” non fa eccezione, rimanendo per lo più un concerto mistico di piano, voce e violini, fin quando non c’è l’esplosione finale, veramente emozionante anche in questo caso.
“Straumnes” è l’unico pezzo strumentale dell’album, dura solamente due minuti ed è dominato dal solito “organo” che a questo punto ci pare di riuscire ad identificare bene in una chitarra elettrica giocata sui volumi e riverberi.
A chiudere l’album pensa “All alright”, unica traccia cantata in inglese, anche se continuerete a pensare che sia cantata in islandese, complice il “biascichio” alla “Thom Yorke”, del cantante e leader dei Sigur Rós, Jónsi Birgisson.
Questa traccia più delle altre ci richiama alla memoria qualche passaggio di "Spirit of Eden" (Talk Talk - 1988) proprio per lo stesso, melodico, sognante e “anomalo” accostamento di voce, piano e ottoni dissonanti, inseriti nel brano a mo di tappeto di violini.
In questo caso non ci sono climax, né colpi di scena e la contemplazione del miraggio islandese dei Sigur Rós, può finalmente consumarsi, lentamente, per tutto il tempo necessario ad apprezzarne le sfumature sonore.
E come in una sorta di autocelebrazione, come titola questa ultima traccia, va proprio "tutto bene" e non troviamo nulla da eccepire in questo ultimo album del gruppo islandese e nella sua ritrovata "fiducia nella vita".
DARIO