Posto qualche riga che ho scritto dopo aver ascoltato (): che esperienza
Sigur Ros: ( )
Il quartetto islandese, dopo gli splendori del precedente Agaetis Bjrjun, si presenta in veste ancor più minimalista: nessuna foto, nessuna informazione, non un titolo, nulla. Solo inserendo il cd nel lettore veniamo a conoscenza del numero delle tracce, otto, e della durata complessiva, oltre 70 minuti. Il titolo dell’album reca solo due parentesi, come dire che l’ascoltatore non deve lasciarsi semplicemente abbandonare, annegare come Ofelia nelle note eteree di questi fantastici musicisti.
Ci accingiamo curiosi all’ascolto e subito, già alla prima traccia, con quell’atmosfera soffusa generata dalle soavi note del piano, si inizia il viaggio sospeso nella nostra anima circumnavigando l’ignoto. Alla traccia #2 il clima si fa rarefatto mentre iniziano ad affacciarsi le chitarre con magici arpeggi, un climax che culmina in quel crescendo del piano che nella traccia successiva ti trasporta in un amen tra gli angeli del paradiso in una beatitudine celeste.
Ti chiedi quanto potrà mai durare tale incanto quando, nella #4, armonie, nenie, climi rarefatti e magici, figurano boschi incantati, gnomi e fate in uno spazio infinito, verde, che non può che essere l’Islanda…e poi ghiacciai, laghi, terra, aria si susseguono nella mente ormai librata nello spazio. Come può essere possibile una magia simile, una delicatezza tanto eterea?
Mentre ti poni queste domande, venti secondi di silenzio ti accompagnano alla traccia #5 e inizia la seconda parte. Immobilità, fissità, note dilatate come a descrivere un deserto: tutto sembra proseguire il discorso precedente. Errore. Pian piano la chitarra, prima quasi assente o impegnata in magici accordi, si fa dispensatrice di dilatazioni che incrinano lievemente la serenità. In un amen dramma angoscia, disarmonia: chitarre taglienti ti affettano il cuore come spine conficcate…manca il respiro, soffochi in un’emozione che non controlli…in un solo istante, bianco, verde, rosso, buio, amore e morte, piacere morboso e sofferenza atroce, lancia che ti squassa sezionandoti…e arrivi in un’altra dimensione. La #7 continua il discorso in una tragedia apocalittica che stordisce e annichilisce. Ti chiedi se sei nello stesso viaggio di prima e dove sono andate a finire quelle armonie cosmiche. Da incanti paradisiaci, in un climax lento e impercettibile, sei stato trasportato nell’ Inferno dantesco come sorvolando in musica la Commedia…le chitarre sono ormai padrone della scena chiudendo in circolo come razzi roboanti la #8.
Un’opera totale e complessa, che non può non suscitare giudizi estremi: noiosa e lamentosa per orecchie superficiali, magica e lisergica per chi è capace di lasciarsi andare alle emozioni. Lunga vita a questi islandesi che rianimano la scena rock del nuovo millennio.